TRAS-FIGURAZIONE
Racconto d’un viaggio – di Alessia Pellegrini
Ti giuro che non ci pensai.
Il mio treno sarebbe partito tra dieci secondi, l’indomani le lezioni sarebbero finite, e tra nove giorni avrei dato il mio esame di Dicembre, dall’esito ottimisticamente incerto.
Non ci pensai, è vero, ma non posso giurarti di non averlo mai almeno sperato.
Sola nei miei quattro ingombranti posti, neanche mi ero curata di identificare gli altri sbadati passeggeri. Pensavo che faceva caldo, che dovevo studiare, che la voce metallica del treno era troppo umana e assordante.
Le tendine blu, più simili a cappe consunte, mi privavano di una vista consueta e della luce necessaria, e le tirai via senza curarmi che finissero nel loro apposito gancio ricurvo. Mi ritrovai, senza rendermene conto, a fissare l’Arno grigio e quieto, da fuori il finestrino, le casette miste a quelle cianfrusaglie che non si notano mai in un paesaggio, eppure ne sono elemento costitutivo prevalente.
Non mi resi neanche conto di aver estratto dall’astuccio lapis e gomma, di aver aperto il solito quaderno all’ultima pagina, che si immagina non debba mai servire, per la dubbia convinzione che le cose possano anche continuare per sempre. Non mi accorsi di niente e di nessuno…
Finché non colsi un guizzare di ricci.
In quel momento, e solo allora, compresi tutto. Ma capisci bene che era troppo tardi, poiché quei ricci confusi portavano al loro interno già un volto squadrato, sopracciglia folte, occhi intensi tra un ricurvo naso aquilino, e tutto sfociava su labbra rotonde, contornate dalla giovane pelle.
Ovviamente non c’era, nel biancore di quella carta, tutto quel pulsare sanguigno dei vivaci colori sul tuo viso. Né potevo sentire, da laggiù sul treno, le grida di stupefatto orrore che contornarono tutta la scena.
Ormai era troppo tardi per tornare indietro.
I riccioli di grafite mi si sfrangiavano in batuffoli cotonati, si irradiavano sulla pagina con spumosa voracità, e assorbivano come ingorde spugne la carta già madida del loro trionfo. Continuavo ad aggiungere tratti, ricurvi soffici ricci.
Non lo vidi io stessa, ma lo dissero.
Dissero che era andato tutto esattamente così, come lo incisi.
Sul ponte che avevi percorso mille volte, ridendo con gli altri, d’improvviso iniziasti a sfaldarti, a sconnetterti e sfibrarti.
I tuoi riccioli un po’ scomposti si decomponevano divenendo aerei sbuffi, come i filamenti di quei fiori che si sfanno. Ma non era un cadere, un depositarsi, bensì un’ascesa ineffabile verso la limpidezza eterna, l’azzurro del cielo che accoglieva le tue ciocche per confonderle con le ben più dure nuvole.
Lentamente, dopo i capelli, anche la fronte iniziò a volare, a farsi più alta sotto la spinta di mani invisibili.
Non c’era però alcuno stridore di forme, tutto il corpo si riequilibrava in sempre nuove armonie cromatiche, e anzi lo sfumarsi e diffondersi del tuo viso nel cielo ti rendeva ancora più bello. Stupefatti, i tuoi amici guardavano in alto. I più temerari seguivano il corso delle tue membra attraverso i cieli, ma non riuscivano a cogliere il distacco tra te e le nubi, tra il sereno chiarore di Dicembre e te, che ormai eri parte di ogni cosa, e dunque anche mia, anche della mia matita che ti elevava, delle mie dita che la cingevano al ventre, della mia mano che la guidava.
Eri parte del braccio che si ergeva in virtuosi arabeschi per permetterti la complessione di un essere etereo, della mia spalla che si fletteva con il tuo incunearti nell’emozione.
Salivi, salivi, ma scendevi anche fin dentro al mio cuore in cui il sangue vibrava come un torrente, e rimanesti vero soltanto il tempo d’un viaggio in treno, da Pisa a Lucca, in un quaderno all’ultima pagina.
Mentre continuavi a camminare, sorridente e gentile, cordiale, accanto ai tuoi amici di sempre, mentre attraversavi il ponte con passi mortali e decisi, fui io stessa a dissolvermi tra i tuoi ricci, o forse la loro illusione, fui io sola a divenire sole, interdetta, sfocata, incorporea.
Eclissata dal tuo io-nuvola.