Esseri sensibili; esseri normali; esseri umani.
Perché definirci normali a tutti i costi se la normalità ci sta stretta? Perché non indossare taglie comode che si adattino alla nostra sensibilità?
Lo ammetto, questo post nasce un po’ per sconforto. È il primo dopo il rientro dalle vacanze (15 giorni di “natura selvaggia” alla scoperta delle meraviglie della Basilicata) e avevo troppa voglia di scrivere per perdermi in cose come programmare un piano editoriaHAHAHAH.
Scherzi a parte, il primo pensiero che mi è balenato in mente per ricominciare dopo la breve pausa estiva è stato: che cosa spinge me e molti altri creatori di contenuti a scrivere, fotografare, filmare, inventare?
Non si tratta soltanto di una riflessione sullo scopo finale, che è quello che di solito tutti ci poniamo, o ci impegniamo a porci.
Scrivo un blog o apro un canale Youtube per farmi conoscere come professionista, oppure per cercare di guadagnare qualcosina, per impratichirmi con l’uso di certi strumenti, ecc…
Quello è il fine ultimo di tutto e all’inizio può essere chiaro oppure no, ma prima lo diventa, meglio è!
La domanda qui è un po’ diversa.
Anche una volta individuato uno scopo “nobile” per il proprio progetto (la speranza di guadagnare, il desiderio di condividere una passione o farsi conoscere, ecc…), che cos’è che ci spinge ad andare avanti imperterriti, giorno dopo giorno, nonostante le mille sfide e ostacoli quotidiani?
E soprattutto: può un progetto alimentato solo a passione e impegno, ma che non porta risultati “pratici”, continuare ad appagare e dare soddisfazione?
Un approccio troppo pragmatico… o troppo visionario?
Non sono mai stata una persona pratica ma senz’altro sono una ragazza tenace.
Vi racconto un piccolo esempio: all’asilo c’erano migliaia di giochi divertenti e creativi, ma un solo strumento noioso da morire. Era una specie di quadretto di stoffa, con lacci e gommini da intrecciare.
Serviva a imparare a fare i fiocchi, ma io ne ero profondamente incapace!
Ebbene, ricordo che mio padre mi spiegò come fare e da allora iniziai ad esercitarmi sempre a quel noiosissimo panno di stoffa, per cercare di superare quello che sentivo come un fastidioso limite.
Ma che bambina noiosetta…. 😀
Che cosa ricavare da questo aneddoto infantile?
Fin da piccoli ci viene insegnato, direttamente o per vie trasversali, che è importante imparare a fare qualcosa di pratico.
Che sia allacciarsi le scarpe, imparare a leggere l’orologio, o più semplicemente fare lo zaino per il giorno dopo: tutta l’attenzione è rivolta a maturare abilità pratiche, che si traducono in azioni che, se svolte come si deve, porteranno a un risultato.
Beh, certo, sarebbe un po’ difficile pensare di crescere senza aver imparato a fare cose basilari come leggere un orologio o fare un fiocco. E non vale dire che hanno inventato le scarpe con gli strap…
Negli ultimi mesi, però, mi sono resa conto di una cosa.
Imparare a legare tra loro due lacci non risulta, in linea di massima, così difficile, per la maggior parte delle persone.
E nemmeno comprendere abbastanza in fretta a distinguere la destra dalla sinistra.
E c’è chi, addirittura, non si è mai posto il problema di imparare a farlo, perché gli veniva in modo totalmente spontaneo.
Poi c’è chi, invece, come me, ha sempre visto le piccole azioni quotidiane come montagne scoscese da scalare, mettendosi fretta da sola, complicandosi (in)volontariamente la strada.
Quello che gli altri bevono come un fresco sorso d’acqua, io lo riempio di paure e ansia fino all’orlo, prima di buttarlo giù!
Una lettura estiva mi ha fatto cambiare prospettiva
«Mi dicevano che ero troppo sensibile» di Federica Bosco.
Un libro che vi consiglio e che nelle prime pagine mi ha fatto commuovere sotto l’ombrellone… 🙂
La sua veste è quella di un manuale informale, organizzato in modo da dare consigli “di sopravvivenza” a tutte le persone che, nella vita, si sono sempre sentite inadatte e troppo sensibili.
Oltre al senso di immedesimazione che suscita, ciò che mi ha più colpito del libro di Federica Bosco è stata la sua proposta di cambiare prospettiva, di smetterla di vederci con gli occhi degli altri, di calibrare la nostra vita sulle regole esterne di un sistema che non ci appartiene.
Le regole comunemente diffuse hanno lo scopo di facilitare la nostra esistenza e convivenza nella società civile, non di creare continuamente ostacoli e frustrazione.
Quel libro mi ha fatto capire di essere diversa dalla maggior parte delle persone (un po’ me ne ero resa conto!), ma non per questo sbagliata, o meno autorizzata a crearmi un mio spazio e una mia personale felicità. Semplicemente è possibile attingere a fonti diverse, a strade meno battute e ritagliarsi umilmente il proprio equilibrio.
Mi ha fatto capire che riuscire a legare quel fiocco, o leggere quelle complicate lancette dell’orologio, non erano azioni capaci di darmi appagamento. Desideravo imparare a svolgerle soltanto per compiacere gli altri, perché le persone normali fanno queste cose, e allora è giusto così.
Ma da quando in qua bisogna essere persone normali?
Perché dobbiamo rinunciare a ciò che di più bello abbiamo al mondo – la nostra libertà e la nostra creatività – per incanalarci in un flusso di pensiero che ci vuole produttivi, pratici, pragmatici?
E se questo modello di mondo non fosse quello giusto per noi?
C’è chi contesta la dieta onnivora e si mette a mangiare solo mele…
Beh, io voglio rivendicare il mio diritto a nutrirmi della vita che voglio.
Una vita che non deve essere per forza perfetta, ordinata, canonica, con le scarpe sempre allacciate.
Non deve essere impeccabile, bella da esporre in vetrina. Deve essere giusta per me!
Niente di più facile. Niente di più difficile… Niente di più.