Limina - Racconti che violano il confine

Limina

La prima raccolta di racconti di Alessia Pellegrini

limina alessia pellegrini

Racconti introspettivi, che ti accompagneranno in un viaggio nelle profondità del sé, fatto di emozioni, sentimenti, segreti e libertà.

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Di che cosa parlano i racconti di "Limina"?

Solo chi ha avuto esperienza del limite può comprendere la sofferenza insita nel superarlo. 

Nella raccolta “Limina”, il limite conserva i due significati propri della parola latina LIMINA:

  1. Confine, termine ultimo
  2. Ma anche soglia, punto di accesso a un’esistenza più vera

I protagonisti dei diciassette racconti brevi sono immortalati nel momento della scelta cruciale.

Rimanere ancorati alla loro vita attuale, ai traumi, alle relazioni tossiche, a un’esistenza sicura, ma che li vede portare in scena ogni giorno se stessi a metà.

Oppure “varcare la soglia”, affrontare l’attimo di apnea che precede l’atterraggio sul gradino successivo e accedere a una vita più piena e allineata con il loro vero sé.
Diventare finalmente protagonisti delle proprie vite e non più semplici comparse.

Sei pronta?

"E le sue dita si allungarono, si distesero come rami, e cuneiformi percorsero nodose traiettorie fino a che non iniziarono a germogliare le foglie e poi i fiori, che dapprima erano timidi sorrisi verdeggianti e poi un rigoglio di risate a cielo aperto."

Antonia pozzi
Dalla poesia "Don Chisciotte"

L'autrice

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Ciao, sono Alessia Pellegrini.

Esploratrice dell’animo umano dal 1992, coltivo Primavere interiori e aiuto giovani donne a riscoprire le meraviglie dentro di sé. 

“Limina” è la mia prima raccolta di racconti. Qui parlo del difficile rapporto con traumi del passato, lutti, sentimenti che tutti noi, animi sensibili, facciamo fatica a volte ad accettare.

Se anche tu sei un’anima in viaggio verso la fioritura, questi racconti parleranno alle parti più profonde di te.

Mi auguro siano il primo seme di consapevolezza della tua Primavera interiore.

La parola ai lettori

Indice dei racconti

«Oggi, è l’anniversario», continuò, senza smettere di pettinare. «Sono sette anni esatti.»
Guardai l’ora sull’orologio da muro posto sopra il tavolo. Con la coda dell’occhio, colsi il luccichio degli strumenti ammassati sulla mensola. Le dodici e quaranta. Venti minuti, soltanto milleduecento secondi di attesa, prima del ritorno di Angela. Poi, avrei potuto abbandonare quel delirio e dimenticarmene almeno fino al sabato successivo.

La notte sale svelta, si espande sulla piazza e ne confonde i contorni, finché dal buio non fanno capolino le luci tenui dei primi lampioni. Guardo di sbieco il venditore che, con passi lenti ma regolari, non ha smesso di seguirmi.

Le scale vuote rimbombavano dei suoi passi, quando gli incubi bussavano alla porta di Ginevra.

Mando giù quel liquido infuocato e lo sento scendere per la gola. Gli sorrido. Mi sono tolta le scarpe anch’io. I miei pensieri si addensano, si fanno fluidi e pesanti come il mercurio, ma la mia testa è incomprensibilmente leggera, pronta a staccarsi e librare dritta fino al soffitto.

Quando la sveglia starnazza con quel suo suono stridulo e annuncia che il sole è sorto, anche io sento il bisogno di sorgere dall’alba del mio torpore. Non posso fare tardi, non posso rimandare: il rituale è esigente, con i suoi adepti, e richiede tempo. Tempo e dedizione.

Gli specialisti ne raccomandano almeno cinque, cinque piccole dosi di veleno quotidiano, più un pizzico di antidoto, alla sera, prima di andare a dormire. Giusto quel minimo per farti riaprire gli occhi il giorno dopo, quando verrai di nuovo catapultata nel tuo circolo tossico.

«Ti devo raccontare una cosa.»
Angela si sedette sul banco e lasciò che i trucioli della matita rossa e blu scivolassero sul pavimento. Si tirò giù le maniche della felpa fino a far scomparire metà dei palmi e il suo sguardo grigio-azzurro percorse in un istante l’intera aula, inciampando su zaini, astucci e quaderni incustoditi, fino a posarsi di nuovo su Gemma.
«Bella?».

«Non c’è niente, qui dentro, Albe»
Piangevo e rigurgitavo parole. «Ti prego, ti scongiuro, ti dico che non c’è niente!».

Si trattava di qualcosa di molto più intimo e oscuro: gli occhi di scimmia.

La prima ad averli scorti, nel fitto della vegetazione, era stata Agata, che poi lo aveva riferito in segreto a Silvia, la quale lo aveva rivelato in confidenza a Giusy, che ne aveva descritto fremente i dettagli più vividi a Maria, così che, in pochi giorni, la notizia si era diffusa tra tutte le ragazze del San Giuseppe e i corridoi si erano animati di una colpevole eccitazione.

Stasera, ti ho seguita fino a casa. Districavi tra le dita i tuoi riccioli d’argento, che disegnavano con i miei passi sinuosissime coreografie. Ti eri accorta che ti seguivo? Chi lo sa.

Lo incontrai in un mattino limpido; luminoso. Fuggiasco, passeggiavo lungo le rive del lago, dove non avevo il permesso di recarmi da solo, immerso tra acqua e cielo in quell’incanto di nuvole liquide di cui solo il rapido bacio di un volo svelava l’illusione.

Quando il vecchio raccontava, le parole si affollavano nella sala in penombra come una schiera di amanti. Riesumavano antichi sussurri attraverso le pareti tappezzate di libri, che sapevano di chiuso e di polvere. Le trovavo una compagnia asfissiante, e così mi avvicinavo a una delle alte finestre che non mi era permesso aprire. I vetri opachi mi restituivano uno sguardo torvo, dentro agli occhi scavati, che a stento riconoscevo come miei.

Le dita di Javier si erano fatte strada tra i suoi capelli, mentre il sussurro caldo della sua voce le sfiorava il collo. «Non l’ho mai raccontato a nessun’altra, prima.» Chiara chiuse gli occhi. Sentiva il cuore di Javier attraverso la stoffa leggera della camicia da notte. Le lacrime le solcarono le guance come rivi infuocati.
«E tu?».

Al limitare del giardino, la sua figura era una visione nella notte. Era alta, bellissima; una primavera rigogliosa le sbocciava sul petto.

Non erano occhi da uomo, di quelli comuni che si indossano oggigiorno. Erano più occhi da bambola, da orsacchiotto di pezza coi bottoni cuciti sopra; ti squadravano con lo stesso sguardo di pezza. Di pazzo.

Un giorno, terminata l’ultima goccia della sua tinta blu, iniziò a fare quadri rossi e gialli. Il mattino seguente, però, anche il giallo si esaurì, e il povero pittore dovette dipingere solo col rosso. Il terzo giorno, il rosso stillò la sua ultima goccia e il pittore rimase senza più nessuna tinta con cui lavorare.

Ed eccolo, saldo e altero, l’enorme cancello in ferro; si stagliava fino a dove lo sguardo poteva arrivare e sprofondava nel terreno fino alle viscere della Terra. Il suo volo finiva sempre lì, ma quel giorno no.

"Varchi con un sorriso indefinibile i confini: sai le spine di tutte le siepi."

Antonia pozzi
Dalla poesia "Don Chisciotte"

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Domande frequenti

Sono tutti racconti brevi, di circa 1-2 pagine.

Racconti introspettivi, psicologia, relazioni familiari.

Sì, la lettura è adatta anche per ragazzi dai 14 anni in su.

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