La serietà di ridere: storia dell’abbandono del riso
Da piccoli è vietato piangere: all’asilo, a scuola, quando i grandi stanno dormendo, o guardano un film.
Sarà per questo che ripieghiamo sul ridere, perché quando sorridiamo contagiamo anche gli altri e tutti gli adulti sono così bravi a dire “che carino quando sorride!“.
Ma poi cresciamo -attenzione!- e iniziano a fioccare i primi moniti alla serietà, da parte di insegnanti e società.
Una mia maestra delle elementari, per richiamare gli alunni da troppo sguaiati schiamazzi, affermò:
Risus abundat in orem stultorum
E tralasciando il fatto che la prima volta, quando sentii questa frase a 9 anni, la compresi come qualcosa del tipo “il risus abbonda in are scultorum“, il significato comunque era e rimane:
Il riso abbonda sulla bocca degli stolti
Un invito a essere seri e composti. Più che lecito, eravamo a scuola!
Proseguendo nell’iter scolastico, gradino dopo gradino, il riso viene sempre più bandito tra i banchi di scuola.
A parte sporadiche e felici eccezioni, al liceo vengono prediletti altri stati d’animo:
- la soggezione
- la consapevolezza di essere ignoranti scansafatiche
- il “so di non sapere” e quindi… non so nulla (ergo: sono un ignorante scansafatiche)
- il minaccioso “godetevi questi anni perché poi inizierà la vita vera, quella dura!“
Uscita dal liceo, fu come se un enorme macigno fosse rotolato via dalla mia schiena, ormai ricurva abbastanza da poter provocare una frana di noiosissimi preconcetti.
Allora, tutta felice, mossi i miei passi leggeri all’Università.
Questo sì che era un altro mondo! Un mondo dove non venivi insultato quotidianamente dai professori (che, anzi, neanche sapevano chi tu fossi), in cui poter studiare in autonomia, senza essere costretti a scrivere su un quaderno a righe decorato a fiorellini fucsia con una penna nera zebrata di blu.
Libertà! Fraternità, egalità…
Ma la libertà di ridere, quella ancora non c’era.
La seriosità accademica all’Università
Alle lezioni, tutto bene. Qualche termine difficile c’era, certo, ma era stimolante e istruttivo.
Il dramma arrivò quando iniziai a studiare i manuali: saggi, saggetti, articoli, tomi, riviste, libelli.
Io avevo scelto la facoltà di Lettere Moderne e così credevo che avrei trovato autori di formazione umanistica, estimatori di una comunicazione chiara e brillante. Mi sbagliavo. Quei manuali spesso erano scritti in aramaico, senza scampo per l’annoiatissimo lettore.
Senza alcuna verve, senza rispetto per occhi sfiniti dallo studio (erano scritti con caratteri minuscoli), senza traduzione in italiano delle citazioni straniere, senza una struttura salda e chiara.
Non tutto si può semplificare o adagiare nella banalità, ne convengo. Né c’è vero apprendimento se non ci confrontiamo con i nostri limiti e riusciamo a progredire nelle conoscenze, affrontando problemi nuovi.
Però dai!
Un po’ di entusiasmo, emozione, espressione chiara dei concetti ci potrebbero stare.
Vi sono dei saggi che, per fortuna, ne abbondano e sono risultati tra i più istruttivi, oltre che di piacevole lettura.
La serietà accademica, inoltre, ha anche un altro aspetto: gli studenti.
Per la prima volta nel mio percorso scolastico, ho trovato persone noiosissime anche al di qua dei banchi di scuola.
Seriosi, allergici al sorriso, alla battuta che non sia letterariamente elevata (e quindi per questo molto spesso noiosissima), saputelli, altezzosi, tecnici.
Ovviamente non tutti, ci mancherebbe! Ho incontrato anche un bel po’ di persone normali.
È che ridere sembra essere diventato fuori luogo in ambito accademico, sembra che quel sorriso non sia più considerato “oh che carino quando sorride“, ma sulla stessa lunghezza d’onda del monito in latino della mia maestra delle elementari.
Se ridi, sei forse un po’ troppo superficiale, sciocco, immaturo. Sei forse una persona poco seria, non competente, non professionale.
Allo stesso modo, anche nella scrittura è prediletta la seriosità: termini tecnici, frasi impersonali, integerrimo stile formale.
Beh, lasciatemi dire una cosa: ma che noia!
La comunicazione deve essere davvero così barbosa per essere considerata degna di veicolare un messaggio importante?
Eppure “a scuola” ci hanno insegnato la differenza tra “forma” e “contenuto” e non avevano detto di appiattirci necessariamente a un tono tetro e funereo.
Il mondo del lavoro e la serietà di ridere
Accediamo disillusi al mondo lavorativo. La serietà si trova così potente? Sì e no, dipende dal contesto!
Quasi sempre, però, la serietà si pretende e ostenta, ma non la si pratica.
Siamo circondati da termini tecnici altisonanti, qualifiche professionali che suonano come illustrissime, richieste di CV curati nei dettagli, che poi vengono spesso scansionati con annoiata indifferenza.
Quando entra in gioco il lato umano, però, sorpresa delle sorprese: ci vorrebbero tutti sorridenti, professionali, sì, ma col sorriso di chi è consapevole di sé e la capacità comunicativa brillante e competente di un… di un CHI?
Ma se nessuno ce l’ha mai insegnato…
Forse dovevamo davvero frequentare l’Università della Vita? Mi sa di sì…
Il riso tanto represso torna prepotente nella capacità di creare dei rapporti umani nel campo lavorativo e -perché no?- nel mondo. Ma ne siamo ancora capaci? Insomma.
Poi c’è una differenza tra riso e sorriso. Nel mondo lavorativo non possiamo ridere sguaiati come bimbi dell’asilo (ah no?) e dobbiamo indossare un sorriso competente, consapevole, moderato.
Nell’immagine che diamo di noi sul web, inoltre, attenzione a non sgarrare. Le forme di “riso serioso” predilette sono la modalità ironica e il sarcasmo.
Sembra che un sano umorismo sia bandito e sorridere sia permesso soltanto nelle forme di un’amara ironia verso i competitor (o i clienti troppo esigenti e ignoranti). Oppure a volte si tratta di un falso sorriso su se stessi, una mossa di marketing che forse solo gli addetti ai lavori possono trovare esilarante, ma in realtà non sincera, non autentica.
Qual è secondo voi la fonte primaria dell’ironia?
Molti rispondono: l’intelligenza.
Io rettifico: la timidezza.
L’ironia scaturisce spesso dalla paura: se non ridiamo per primi degli altri, mostrando tutta la nostra superiore competenza, potremmo entrare a nostra volta nel mirino della de-risione.
Ecco allora che scatta la corsa alla seriosità. Non mi vedrai sorridere, ammiccare, mostrare i denti.
Mi vedrai indossare camicie e cravatte e sì -non ti preoccupare- ho già pronto un completo anche per il mio post su Linkedin: lo faccio uscire alle 8:00 di lavanderia.
Conclusioni sulla serietà di ridere: una possibilità di mediazione
Quali sono le conclusioni di questa storia progressiva dell’abbandono del riso? Forse che tutto il mondo (accademico e lavorativo compresi) dovrebbe trasformarsi in un’allegra e scanzonata fiera di paese?
Lungi da me pensarlo!
Eppure sono convinta che esista una via intermedia di comunicazione, quella nel cui solco aspiro a inserirmi e che anima tutti i saggi e contenuti a mio avviso più validi e utili.
Sì, perché secondo me si tratta di una questione di utilità.
Può essere bello un saggio lunghissimo e incomprensibile, forse bello per chi lo scrive.
Ma a che cosa serve se il lettore non lo comprende e non è in grado di dare un senso a tutte quelle nobilissime parole?
Si può fare una cernita di lettori, selezionando i più “degni” e competenti a cui rivolgere il nostro messaggio, ma a lungo andare questo può portare a un impoverimento, anziché a un arricchimento delle conoscenze trasmesse.
Ogni conclusione ha la sua eccezione.
Avevo però desiderio di esprimere queste riflessioni in margine all’argomento “serietà del riso” e così, senza troppo sorridere mentre scrivevo, l’ho fatto e spero di aver acceso qualche spunto in chi mi leggerà.