Un Maus in casa Dolcemare ovvero i mostri marini. Dentro il racconto di Alberto Savinio
Oltre le soglie dell’apparenza
L’immaginario narrativo di Alberto Savinio, al pari di quello pittorico, presenta suggestioni e spunti di estremo interesse, per gli appassionati alla cosiddetta “arte metafisica” (di cui il fratello Giorgio De Chirico è massimo esponente) e non solo.
Al di là della ricchezza di elementi stranianti fantastici, infatti, possiamo cogliere nel racconto in analisi l’aspetto preponderante della reciprocità: tra l’uomo e i mostri marini, tra fantasie bambine e “fantasie adulte” (ruoli, convenzioni, maschere sociali), tra immaginazione e realtà.
Sulla scia di questa suggestione, porterò avanti la mia analisi del racconto “Maus in casa Dolcemare ovvero i mostri marini” di Alberto Savinio.
Le citazioni sono prese da: Alberto Savinio, Casa “la Vita” (1943), Bompiani, Milano 1971
Messario: un domestico marino
Centrale fin dalle prime battute la figura di Messario, il domestico di casa Dolcemare, che il commendatore Visanio chiama “mostro marino”.
Il piccolo Nivasio, protagonista del racconto, ignora il motivo di questo nomignolo. Quando egli spia dal buco della serratura dentro la camera di Messario, il mistero, anziché svelarsi, si infittisce, poiché lo vede immergere la testa in un “mastello pieno d’acqua” senza alcuna intenzione di emergere a riprendere aria.
Agli occhi degli “adulti” il soprannome si spiega in virtù delle caratteristiche fisiche del cameriere:
Messario era privo di sporgenza nasale e le sue narici perfettamente verticali
consentivano di guardarle fino nel fondo umido e rosato. Gli occhi erano rotondi,
sforniti di ciglia e di apparenza ossea. […] La barba di Messario era rada ma di
peli lunghissimi, quasi a nascondere l’assenza di mento e la respirazione “laterale”
che gli faceva palpitare a ritmo le mascelle.
Alberto Savinio, Casa “la Vita”, cit., p. 131
Ma anche Nivasio coglie l’opportunità di questo soprannome, dal momento
che:
Messario parlava del mare come di cosa sua: come all’estero si parla del proprio
paese; come l’affittacamere parla del tempo che aveva la macchina con l’autista.
Messario prometteva a Nivasio di fargli conoscere i segreti del mare.
“E i mostri marini?” domandava Nivasio.
“Un giorno ti farò vedere anche i mostri” rispondeva Messario.
Ivi, p. 132
L’occasione per far luce sulla vita segreta di Messario giunge una domenica dopo cena, sera in cui, come di consueto, la famiglia Dolcemare riunisce ospiti e amici per il maus: “un gioco innocente che si gioca in molti”.
Gli invitati appartengono alla classe borghese, come dimostrano i loro appellativi: “monsignor”, “conte e contessa”, “commendatore”, “direttore del gas”.
Lo strappo nel cielo di carta
L’elemento di rottura all’interno della sobria routine domestica è rappresentato, come spesso nei racconti di Savinio, da un suono: “Si udì squillare il campanello di casa”. Il piccolo Nivasio pensa “a qualche invitato in ritardo”, e di ritardatari effettivamente si tratta: alla porta sono infatti le due sorelle Vianelli, signorine di malcostume del paese.
Le due signorine, non invitate, suscitano negli ospiti uno scandalizzato imbarazzo.
Dapprima sui volti degli ospiti si dipinge “un profondo stupore, poi […] una non meno profonda indignazione”.
In mezzo alla boria borghese, ecco che avviene “la lacerazione”:
Nivasio udì un piccolo tonfo accanto a sé, e si voltò: Messario si era levato in
piedi e il bigné che stava per cacciarsi in bocca era caduto ai piedi del divano, era
esploso e la crema si spandeva sul tappeto.
Ivi, p. 135
Il bigné alla crema “esploso” è l’equivalente dello “strappo nel cielo di carta” pirandelliano.
L’anomalia, l’inaspettato apre uno squarcio nella rassicurante apparenza, mette in discussione ciò che era prima comunemente accettato come vero.
Nel momento in cui la contessa Corilopsis si riferisce alle sorelle Vianelli con il commento “non è gente de notre monde!”, Messario ricorda improvvisamente la sua “vera natura”.
Anch’egli si lascia andare al commento “E io, qui, sono forse nel ‘mio’ mondo?”.
Una passeggiata in fondo al mare
La decisione di Messario è repentina: egli afferra la mano di Nivasio e lo strascina via con sé.
La loro meta è arrivare al mare e, una volta giunti, andare “oltre” l’“ingresso del mare”, immergersi completamente così come sono: “L’acqua gli salì sopra il naso, e Nivasio chiuse gli occhi”.
Al di là di ogni aspettativa, Nivasio si trova di fronte a una vita “altra”, al di là della superficie dell’acqua.
Qui Messario sembra ritrovare appieno la propria natura e la propria serenità. Nivasio ne è rassicurato e, allo stesso tempo, si rende conto di sentirsi meno estraneo a questo nuovo elemento rispetto a quanto si fosse aspettato.
Questa subitanea sensazione di “sopportabilità” del diverso è il tema centrale di tutto il racconto.
La paura del nuovo che prima attanagliava Nivasio, al pari di tutta la sua famiglia e di tutti gli uomini, si dissolve non appena egli impara a “conoscere il diverso” che tanto teme.
Il mondo sottomarino è inaspettato quanto piacevole:
Era sì come vivere dentro una gelatina più liquida, ma in compenso c’era quel
molle sostegno onniparte, quel sentimento di comunque non rischiare di cadere,
quell’attrazione che si esercitava nonché dal basso ma dall’alto pure e
lateralmente.
Ivi, p. 145.
Il viaggio dei due continua in questa nuova realtà liquida, avvertita come perfettamente naturale.
Siamo all’interno del cosiddetto “soprannaturale d’imposizione”, teorizzato da Francesco Orlando, in cui l’elemento oltre natura si presenta come normale, non accompagnato da alcuno stupore.
Per approfondire: Gli statuti del soprannaturale nella letteratura
Il mondo “oltre lo specchio” d’acqua
Sotto il mare, sono i genitori dello stesso Messario a farsi portavoce di una prospettiva che possiamo definire speculare, rispetto a quella sulla terra.
Scopriamo, infatti, che la madre nutre verso il figlio un’umana preoccupazione e un’analoga diffidenza nei confronti dello sconosciuto “mondo in superficie“.
“Te lo dicevo, figliolo: sono ambizioni sbagliate abbandonare la famiglia, la tua
gente e andare tra gli uomini […] Chi sa come t’hanno trattato, quanto sei stato
infelice!”
Ivi, p. 139
Il tema della diffidenza verso il “diverso” si fa ancora più esplicito quando Nivasio torna a chiedere ai suoi nuovi intorlocutori dove si trovano i famosi “mostri marini”.
Le spiegazioni che riceve ci suonano molto singolari:
“I mostri marini sono laggiù,” rispose Messario con mollezza “ma io per dirti la
verità non li ho mai veduti. Bisogna domandare a papà” […] “I mostri marini?”
replicò il padre di Messario, preso alla sprovvista. “A me me ne parlava mio
padre. Diceva che stanno laggiù”.
Ibidem
L’uso del vago “laggiù” pone l’accento su un elemento fondamentale per la definizione dei mostri, ossia la loro “lontananza”. In altre parole, la loro estraneità.
Nivasio scopre che, anche nel mondo sotto al mare, i mostri non sono mai stati visti direttamente, ma la loro fama si tramanda di padre in figlio, come minaccia per gli “ompiscetti” (quelli che gli umani chiamano “bambini”) quando questi fanno i cattivi, e come rassicurazione della propria “normalità”.
I mostri marini non possono che essere definiti in negativo, come tutti coloro “diversi da noi”.
È il padre di Messario che, infine, svela il mistero:
“Per me i mostri marini non esistono. I mostri sono gli altri, quelli che non sono
come noi. O forse i mostri marini siamo proprio noi, e o noi non ce ne
accorgiamo, oppure lo sappiamo e diciamo che i mostri stanno laggiù, per
stornare i sospetti”
Ivi, p. 140
La chiave di lettura non lascia spazio ai dubbi.
Un nuovo sguardo oltre l’abitudine
Grazie a questa nuova consapevolezza, Nivasio può ora guardare con occhi nuovi, con sguardo più acuto, i convitati in casa Dolcemare. Al suo rientro, egli scopre che gli ospiti stanno ancora parlando delle Vianelli.
Questa volta, alla frase “Dei mostri sono, mia cara, des mostres!”, il cielo di carta si squarcia del tutto.
Ecco che Nivasio riesce a vedere “al di là dell’abitudine”, vede i giocatori in quella che si rivela essere:
…la loro consistenza vera. Nivasio vide la contessa Corilopsis arrotondarsi a budino, staccarsi dalla sedia e salire lentamente al soffitto. Vide Oscar Dacosta, direttore del gas, buttare fuori una proboscide dal naso e avvilupparcisi dentro come un sonatore di trombone. Vide Mustafà diramare le sue corte braccette in tentacoli occhiuti, che si mossero sopra la tavola come giganteschi pétali malati. Vide monsignor Fuagrà con due occhi di gufo sulle spalle e Antoine Calaroni con due occhi di polpo sul sedere. Vide sulla pancia impallonata del conte Minciaki aprirsi due labbra vermiglie e mollemente boccheggiare. Anche suo padre e sua madre cominciarono a trasformarsi, ma Nivasio per pudore non guardò più dalla loro parte. I globi, le spire, le anella, i lunghi tubi di pelle pénduli come liane riempivano la sala da pranzo, si movevano lentamente, esplodevano ogni tanto in guizzi repentini, si avvolgevano in rosei viluppi; e una voce spolpata spirava da entro l’orribile magma e diceva: “I mostri marini… I mostri marini…”
“Questi dunque sono i mostri marini!”, pensò Nivasio.
Ivi, p. 141
La società borghese, gretta e perbenista, è svilita dall’interno attraverso una grottesca disumanizzazione.
Un paragone inedito: “La caccia“
Procedimento analogo è quello a cui assistiamo nel mio racconto “La caccia“, dove il protagonista assiste, disgustato, a una coppia di turisti innamorati:
Una coppia di sposini mi passa accanto; avanzano a braccetto come fossero una cosa sola, sgomitando per farsi largo tra gli astanti. Indossano sorrisi accomodanti e abiti sgualciti; affamati, si accalcano dove la folla si raddensa, come pesci boccheggianti
davanti a briciole di pane. Lui la stuzzica, la rimbambisce di spiritosaggini, facendo ondeggiare pericolosamente su e giù la rosea testa da cernia; lei gli sorride schioccando le ricurve labbra di tonno, intonate alla borsetta. La gonna azzurra plissettata, alzandosi a ruota, mi sferza senza vigore il polpaccio nudo e vengo sopraffatto dal penetrante odore di salsedine; mi torna in mente Dorotea.
Alessia Pellegrini, “La caccia”, in “Limina”
Se, però, ne “La caccia” la prospettiva straniante prosegue fino agli esiti più inquietanti, in Savinio basta “un fatto anche minimo di verità“, per riportare la normalità.
L’elemento “riparatore” è, ancora una volta, il bigné spaccato, caduto a Messario, da cui ha avuto inizio tutto.
Stavolta il bigné si presenta, per contrasto alla visione straniante dei mostri, un elemento familiare, noto, rassicurante.
Quando Nivasio rialza gli occhi, può scoprire con sollievo che: “Il maus in casa Dolcemare era rientrato nella realtà: in ciò che noi crediamo realtà”.
Due possibili conclusioni, o forse tre
Rendersi conto dello squarcio nel cielo di carta può infatti avere due conseguenze: svelare tutta la verità che si annida sotto l’apparenza, oppure distogliere lo sguardo su un altro rassicurante pezzo di cielo, in cui la stoffa è ancora perfettamente intatta.
Voglio azzardare una terza ipotesi: andare “al di là del rovescio“, come nella prospettiva di Tabucchi, e osservare come la realtà possa coesistere nell’ibridazione e compresenza di mondo in superficie e mondo “oltre lo specchio“.
Può interessarti anche:
I fantasmi arrivano in bicicletta. Analisi del racconto di Antonio Tabucchi
Alessia Pellegrini
BIOGRAFIA:
- Breton, Albert, “Alberto Savinio”, in Anthologie de l’Humour Noir, Paris, 1939, tr.it. Di Rossetti Mariella e Simonis Ippolito, L’antologia dello humour nero, Einaudi, Torino 1970
- Cirillo, Silvana, Alberto Savinio, le molte facce di un artista di genio, Mondadori, Milano, 1977
- Cirillo, Silvana, Casa la “Vita” di Alberto Savinio, Bulzoni, Roma 1975
- Lanuzza, Stefano, Alberto Savinio, La Nuova Italia, Firenze 1979
- Orlando, Francesco, “Statuti del soprannaturale nella narrativa”, in Moretti F., Il romanzo, Einaudi, Torino 2001, Vol. I, pp. 195-226
- Piscopo, Ugo , Alberto Savinio, Mursia, Milano, 1973
- Savinio, Alberto, Casa “La vita” (1943), Bompiani, Milano 1971
- Savinio, Alberto, Infanzia di Nivasio Dolcemare (1941), Einaudi, Torino 1973
- Tordi, Rosita Aa.Vv. Mistero dello sguardo: studi per un profilo di Alberto Savinio, (a cura di) Rosita Tordi, Bulzoni, Roma 1992